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lunedì 12 dicembre 2011
Kepler-22b, il pianeta gemello della Terra
Ha un diametro 2,4 volte quello terrestre e sulla sua superficie potrebbe esserci acqua allo stato liquido: Kepler-22b è il primo esopianeta per cui la NASA ha confermato le condizioni di "abitabilità". Inoltre, sulla base delle stesse osservazioni grazie a cui è stato scoperto Kepler-22b, il Planetary Habitability Laboratory dell'Università di Puerto Rico ad Arecibo ha realizzato una sorta di "tavola periodica" degli esopianeti identificando oltre 15 esopianeti e 30 esosatelliti potenzialmente abitabili
Coloro che cercavano un pianeta gemello della Terra sono ora accontentati: la missione Kepler della NASA ha confermato l’esistenza di un pianeta, il più piccolo osservato finora, che orbita nella “zona abitabile” di una stella simile al Sole. Kepler-22b – questo il nome del pianeta extrasolare – ha un diametro pari a 2,4 volte quello terrestre e potrebbe dunque avere acqua liquida sulla superficie e condizioni adatte allo sviluppo della vita, per quanto in forme elementari.
“Si tratta di un risultato fondamentale per la ricerca di un gemello del nostro pianeta”, ha commentato entusiasticamente Douglas Hudgins, che partecipa al programma Kepler presso il quartier generale della NASA a Washington. “I risultati continuano a dimostrare l’importanza delle missioni che cercano di rispondere alle domande principali sul nostro ruolo nell’universo”.
La notizia divulgata dalla NASA ha in parte offuscato quella del Planetary Habitability Laboratory (PHL) dell'Università di Puerto Rico ad Arecibo (UPR Arecibo) che grazie ai dati di Kepler ha condotto una nuova valutazione dell'abitabilità dei pianeti già compresi nell'Habitable Exoplanets Catalog (HEC) che non solo identifica nuovi esopianeti, tra cui alcuni esosatelliti, ma li classifica secondo diversi indici di abitabilità.
Dopo oltre 700 oggetti scoperti in 20 anni e altre migliaia in attesa di una conferma, sembra quindi aprirsi una nuova fase della rilevazione della presenza di esopianeti che mette in primo piano la valutazione sempre più accurata della presenza di condizioni favorevoli allo sviluppo della vita.
Tra le novità introdotte nel Catalogo, vi sono tre nuovi indici di abitabilità, denominati rispettivamente Earth Similarity Index (ESI), Habitable Zones Distance (HZD), e Global Primary Habitability (GPH), che fanno riferimento ai dati di altre
banche dati come l'Extrasolar Planets Encyclopaedia, l'Exoplanet Data Explorer, la NASA Kepler Mission.
“Le nuove osservazioni effettuate con osservatori orbitali e a Terra permetteranno di scoprire migliaia di esopianeti nei prossimi anni”, ha commentato Abel Méndez, direttore del PHL e principal investigator del progetto. “Ci aspettiamo che le analisi contenute nel nostro catalogo aiuteranno a identificare, organizzare, e confrontare la potenziale capacità di sostenere la vita di ciascuno di essi”.
Il catalogo elenca e categorizza le scoperte di esopianeti con vari sistemi di classificazione basati sulle proprietà planetarie e stellari: una di esse divide gli oggetti in 18 categorie termiche e di massa, realizzando una sorta di "tavola periodica" degli esopianeti.
Prima di Kepler-22b solo due esopianeti confermati hanno soddisfatti i criteri di abitabilità nel catalogo: Gliese 581d e HD 85512b, entrambi classificati come esopianeti di tipo terrestre, ma solo marginalmente. Oltre a essi, il catalogo identifica più di 15 esopianeti e 30 esosatelliti come potenzialmente abitabili. Per confermare queste ipotesi occorreranno nuove osservazioni con strumenti innovativi come il proposto Terrestrial Planet Finder (TPF) della NASA.
"E io vi ho già comprato casa..." ShowLegend.
Coloro che cercavano un pianeta gemello della Terra sono ora accontentati: la missione Kepler della NASA ha confermato l’esistenza di un pianeta, il più piccolo osservato finora, che orbita nella “zona abitabile” di una stella simile al Sole. Kepler-22b – questo il nome del pianeta extrasolare – ha un diametro pari a 2,4 volte quello terrestre e potrebbe dunque avere acqua liquida sulla superficie e condizioni adatte allo sviluppo della vita, per quanto in forme elementari.
“Si tratta di un risultato fondamentale per la ricerca di un gemello del nostro pianeta”, ha commentato entusiasticamente Douglas Hudgins, che partecipa al programma Kepler presso il quartier generale della NASA a Washington. “I risultati continuano a dimostrare l’importanza delle missioni che cercano di rispondere alle domande principali sul nostro ruolo nell’universo”.
La notizia divulgata dalla NASA ha in parte offuscato quella del Planetary Habitability Laboratory (PHL) dell'Università di Puerto Rico ad Arecibo (UPR Arecibo) che grazie ai dati di Kepler ha condotto una nuova valutazione dell'abitabilità dei pianeti già compresi nell'Habitable Exoplanets Catalog (HEC) che non solo identifica nuovi esopianeti, tra cui alcuni esosatelliti, ma li classifica secondo diversi indici di abitabilità.
Dopo oltre 700 oggetti scoperti in 20 anni e altre migliaia in attesa di una conferma, sembra quindi aprirsi una nuova fase della rilevazione della presenza di esopianeti che mette in primo piano la valutazione sempre più accurata della presenza di condizioni favorevoli allo sviluppo della vita.
Tra le novità introdotte nel Catalogo, vi sono tre nuovi indici di abitabilità, denominati rispettivamente Earth Similarity Index (ESI), Habitable Zones Distance (HZD), e Global Primary Habitability (GPH), che fanno riferimento ai dati di altre
banche dati come l'Extrasolar Planets Encyclopaedia, l'Exoplanet Data Explorer, la NASA Kepler Mission.
“Le nuove osservazioni effettuate con osservatori orbitali e a Terra permetteranno di scoprire migliaia di esopianeti nei prossimi anni”, ha commentato Abel Méndez, direttore del PHL e principal investigator del progetto. “Ci aspettiamo che le analisi contenute nel nostro catalogo aiuteranno a identificare, organizzare, e confrontare la potenziale capacità di sostenere la vita di ciascuno di essi”.
Il catalogo elenca e categorizza le scoperte di esopianeti con vari sistemi di classificazione basati sulle proprietà planetarie e stellari: una di esse divide gli oggetti in 18 categorie termiche e di massa, realizzando una sorta di "tavola periodica" degli esopianeti.
Prima di Kepler-22b solo due esopianeti confermati hanno soddisfatti i criteri di abitabilità nel catalogo: Gliese 581d e HD 85512b, entrambi classificati come esopianeti di tipo terrestre, ma solo marginalmente. Oltre a essi, il catalogo identifica più di 15 esopianeti e 30 esosatelliti come potenzialmente abitabili. Per confermare queste ipotesi occorreranno nuove osservazioni con strumenti innovativi come il proposto Terrestrial Planet Finder (TPF) della NASA.
"E io vi ho già comprato casa..." ShowLegend.
Manipolare con il laser stati quantistici ultrafreddi
Una nuova ricerca del Joint Quantum Institute ha permesso di ingegnerizzare una collisione tra atomi dotati di momento angolare a temperature vicine allo zero assoluto: il risultato rappresenta un ulteriore passo verso la realizzazione di calcolatori quantistici (red)Potrebbe aprire la strada alla creazione di stati quantistici esotici - potenzialmente sfruttabili per avanzare nella ricerca sul calcolo quantistico - il risultato ottenuto dai ricercatori del Joint Quantum Institute (JQI), che per la prima volta hanno ingegnerizzato e rivelato la presenza di collisioni tra atomi dotati di momento angolare a temperature vicine allo zero assoluto.
Finora infatti gli esperimenti con atomi ultrafreddi si basavano essenzialmente su collisioni frontali: l'esperimento del JQI, per contro, ha dimostrato la possibilità di ottenere collisioni più complesse. Il punto cruciale per questo approccio è di alterare l'ambiente degli atomi con luce laser: in particolare, è stata utilizzata una coppia di fasci laser, che forzano atomi di rubidio ad avere uno di tre possibili valori discreti per il momento angolare.
Il risultato del JQI può essere compreso pienamente tenendo conto che l'interazione tra due particelle può essere descritto in termini del loro momento angolare quantizzato: se esso è zero, lo scattering (l'urto e la diffusione di una particella rispetto all'altra) viene indicato come “onda-s”, se la coppia di particelle in collisione ha un'unità di momento angolare si parla invece di “onda-p”, nel caso di due unità di “onda-d”, e così via, seconda la ben nota sequenza del numero quantico secondario.
Negli urti ad alta energia, come quelli che si producono negli acceleratori, queste configurazioni sono importanti per ottenere informazioni sulle particelle coinvolte. Nello scattering a basse temperature, invece, le interazioni di tipo S sovrastano di gran lunga le altre. I due atomi in sostanza rimbalzano gli uni sugli altri senza alcuna direzione preferenziale come se fossero sfere perfettamente rigide e questo scattering isotropico non rivela praticamente nulla dello stato originario
degli atomi.
Nell'esperimento del JQI, gli schemi osservati per gli atomi hanno dimostrato l'esistenza di scattering di tipo d o anche di ordine superiore.
“La nostra tecnica rappresenta un metodo assolutamente nuovo per 'ingegnerizzare' simili interazioni, e speriamo che il nostro lavoro stimoli la ricerca in questo campo”, ha spiegato Ian Spielman, che con i colleghi ha firmato un articolo di resoconto su "Science Express". "Stiamo modificando il reale carattere di queste interazioni semplicemente applicando una radiazione laser”.
Finora infatti gli esperimenti con atomi ultrafreddi si basavano essenzialmente su collisioni frontali: l'esperimento del JQI, per contro, ha dimostrato la possibilità di ottenere collisioni più complesse. Il punto cruciale per questo approccio è di alterare l'ambiente degli atomi con luce laser: in particolare, è stata utilizzata una coppia di fasci laser, che forzano atomi di rubidio ad avere uno di tre possibili valori discreti per il momento angolare.
Il risultato del JQI può essere compreso pienamente tenendo conto che l'interazione tra due particelle può essere descritto in termini del loro momento angolare quantizzato: se esso è zero, lo scattering (l'urto e la diffusione di una particella rispetto all'altra) viene indicato come “onda-s”, se la coppia di particelle in collisione ha un'unità di momento angolare si parla invece di “onda-p”, nel caso di due unità di “onda-d”, e così via, seconda la ben nota sequenza del numero quantico secondario.
Negli urti ad alta energia, come quelli che si producono negli acceleratori, queste configurazioni sono importanti per ottenere informazioni sulle particelle coinvolte. Nello scattering a basse temperature, invece, le interazioni di tipo S sovrastano di gran lunga le altre. I due atomi in sostanza rimbalzano gli uni sugli altri senza alcuna direzione preferenziale come se fossero sfere perfettamente rigide e questo scattering isotropico non rivela praticamente nulla dello stato originario
Nell'esperimento del JQI, gli schemi osservati per gli atomi hanno dimostrato l'esistenza di scattering di tipo d o anche di ordine superiore.
“La nostra tecnica rappresenta un metodo assolutamente nuovo per 'ingegnerizzare' simili interazioni, e speriamo che il nostro lavoro stimoli la ricerca in questo campo”, ha spiegato Ian Spielman, che con i colleghi ha firmato un articolo di resoconto su "Science Express". "Stiamo modificando il reale carattere di queste interazioni semplicemente applicando una radiazione laser”.
Una nuova ricerca del Joint Quantum Institute ha permesso di ingegnerizzare una collisione tra atomi dotati di momento angolare a temperature vicine allo zero assoluto: il risultato rappresenta un ulteriore passo verso la realizzazione di calcolatori quantistici (red)
Il futuro della tecnologia TouchScreen
Progettato da Jakub Zahor, il nuovo concetto di TouchScreen rientra nella fascia della tecnologia informatica alta e innovativa. Permetterà all’utente di utilizzare le proprie applicazioni ovunque, anche sulla superficie di un bicchiere d’acqua. Purché sia vetro.
mercoledì 30 novembre 2011
Le foto delle nuove specie marine dell’Antartide - Nuove scoperte
Ragno di Mare, lungo 9,8 pollici scovato nel Mare di Ross nel sud Antartide. Temperature fredde, pochi predatori e alti livelli di ossigeno potrebbero spiegare le loro dimensioni gigantesche.
Lo chiamano il polpo Antartico ed è stato considerato come la diciottesima specie di polpo scoperta. E’ stato trovato alla profondità di 3280 piedi.
Un nuovo tipo di stella marina, che assomiglia ad un sacco, misurante 24 pollici di lunghezza.
Si tratta di una specie completamente nuova ancora in fase di studio. Misura 2,5 pollici di larghezze e fino a 39 pollici di lunghezza.
Lo chiamano stareater. Questo pesce ha la pelle molto morbida, genera luce rossa per attirare la preda verso di se. Una volta che la preda è a breve distanza, i denti aghiformi, affilatissimi e curvi non danno alcuno scampo. Il pesce appartiene alla famiglia Stomiidae e cresce fino a una dimensione di 8,3 pollici.
Si tratta di un nuovo tipo di Barracuda. Il pesce ha occhi blu zaffiro con una bocca lunga contenente denti ricurvi per immobilizzare prede ed esercitando una notevole pressione sono in grado di paralizzare la spina dorsale della vittima.
Questa specie si chiama anfipode e fu scoperto nel 2004. Questo crostaceo si presenta come un gambero ed è stato raccolto da una profondità di 985 metri.
Si tratta di una nuova specie di maiale del mare, dichiarata come un genere di cetriolo di mare (holothurians). I Cetrioli di mare fanno parte di un gruppo di animali marini che popolano il fondale marino assieme agli schizzi del mare, le stelle marine, le lumache di mare, coralli, molluschi, spugne e ricci.
Si tratta di una stella del mare del genere Labediaster, circondata da stelle più piccole e adagiata su un monte sottomarino alto 492 piedi (150 metri) sotto la superficie del Mare di Ross.
Creata una foglia artificiale capace di produrre energia
Parlando al Meeting Nazionale della American Chemical Society in California, il Professore Daniel Nocera, del MIT sostiene di avere creato una foglia artificiale, realizzata con materiali stabili e poco costosi, che imita il processo di fotosintesi della natura.
Il dispositivo è una cella solare avanzata, non più grande di una carta da gioco, capace di galleggiare in una pozza d’acqua. Poi, proprio come una foglia naturale, utilizza la luce solare per dividere l’acqua nelle sue due componenti principali, ossigeno e idrogeno, che vengono memorizzati in una cella a combustibile da utilizzare nella produzione di energia elettrica.
La foglia creata da Nocera è stabile – nei test preliminari è stata capace di funzionare di continuo per 45 ore senza un calo dell’attività – e costruita con materiali ampiamente disponibili e poco costosi. Ad esempio il silicio, alcuni componenti elettronici e catalizzatori chimici. E’ anche potente, fino a dieci volte più efficiente nel realizzare la fotosintesi rispetto alle foglie naturali.
Con un singolo gallone di acqua, dice Nocera, il chip potrebbe produrre abbastanza elettricità per alimentare una casa per l’intera giornata. Fornendo ogni casa del pianeta con una foglia artificiale si sarebbe in grado di soddisfare il fabbisogno di 14 terrawatt con un solo gallone di acqua al giorno.
Le affermazioni del Professor Nocera sono impressionanti e non si tratta di semplici concetti. Nocera ha già firmato un contratto per commercializzare la sua idea rivoluzionaria. Il gigante indiano Tata Group ha stretto un accordo per la costruzione di un impianto di piccola potenza, delle dimensioni di un frigorifero, in circa un anno e mezzo.
Questa non è la prima foglia artificiale costruita, naturalmente. Il concetto di emulazione della natura per generare energia è studiato da alcuni decenni e molti scienziati hanno cercato di creare questo tipo di sistemi. Il primo, costruito più di dieci anni fa da John Turner del Laboratorio US National Renewable Energy, è stato efficiente nel simulare la fotosintesi, ma era fatta di materiali rari ed estremamente costosi. Si è rivelato anche molto instabile e aveva una durata di appena un giorno.
Per ora, Nocera sta focalizzando gli occhi sulla paesi in via di sviluppo. “Il nostro obiettivo è quello di rendere ogni casa una piccola centrale elettrica”, ha detto. “Si potrebbero immaginare villaggi in India e in Africa, tra non molto tempo, acquistare un sistema di alimentazione di base a basso costo basato su questa tecnologia”.
lunedì 28 novembre 2011
Il Mammut rinascerà nel 2016
"Io ho già prenotato una bistecca al Mammut!!"
Show Legend.
Gli alberi vampiro. Un film horror? No una mutazione genetica
Gli organismi albini sono solitamente considerati piuttosto strani, ma nel mondo vegetale rappresentano una rarità.
In questo caso parliamo di una sequoia molto rara a cui manca completamente il pigmento verde della clorofilla, di cui hanno bisogno per vivere (per compiere la fotosintesi). Or bene, queste piante sono letteralmente dei “vampiri”. Sono pallidi (semprebianchi invece che sempreverdi), e sopravvivono succhiando la linfa da altri alberi.
Questi alberi restano attaccati alle radici dell’albero genitore sano (le sequoie costiere possono riprodursi asessualmente emettendo nuovi germogli dalle radici o ceppi) e sopravvivono succhiandogli le sostanze vitale. Possono sopravvivere, in queste condizioni, per oltre un secolo. Lo storico Sandy Lyndon ha spiegato il fenomeno:
“L’albinismo è una mutazione genetica che impedisce alle cellule di produrre pigmento. Negli esseri umani e in altri animali, l’albinismo non è necessariamente un problema tale da metterne a rischio la sopravvivenza. Ma le piante, non possedendo clorofilla, non possono eseguire la fotosintesi. In parole povere, non sono capaci di tramutare la luce solare in energia. L’unica modo che le sequoie albine hanno per sopravvivere è restare collegate alla radice di un albero genitore da cui si succhiano linfa per tutta la vita.”
In tutto il mondo, secondo autorevoli stime, esistono solamente circa 25 alberi di questo tipo, otto dei quali risiedono presso l’Henry Cowell State Park in California, dove ranger e ricercatori dell’Università di Stanford e UC Santa Cruz stanno eseguendo degli studi approfonditi.
I loro aghi sono molli e cerosi. Hanno un colore bianco, come si evince dalla foto. Il fatto che 8 dei 25 esemplari siano cresciuti in questo luogo, rappresenta per gli studiosi un mistero scientifico.
La sequoia dispone di sei coppie di cromosomi che sono in grado di mescolare e abbinare, sperimentando combinazioni diverse e consentendo adattamenti per combattere funghi e virus che altrimenti potrebbero decimare la popolazione.
L’albinismo sembra rappresentare il risultato di un rimescolamento più evoluto spiega il docente Dave Kuty al San Jose Mercury News:
Quando i tempi le condizioni ambientali divengono proibitive, l’albero genitore sottrae tutto il supporto e le piantine imbruniscono, sino a perire. In periodi di piogge abbondanti, germogliano di nuovo, abbondantemente. “Le sequoie albine vanno e vengono, come fantasmi,” dice Kuty detto. “Possono morire fame e scomparire. Per poi riapparire “.
Si può non invecchiare? Sì, se si contrae una rara sindrome dei tessuti
Quando però colpisce i tessuti della pelle accade che si può apparire più giovani anche di 20 anni. E’ quanto accade alla 60 enne Susan Johnson, britannica, che certo non ha bisogno di ricorrere alle cure di un chirurgo o dell’estetista per apparire più giovane. Ma gli effetti positivi sono controbilanciati dagli aspetti negativi. La pelle della donna si è ispessita talmente tanto che non riesce a sopportare il clima freddo o l’umidità, o ad esempio non è più in grado di pelare le patate.
La causa dell’irrigidimento della pelle è dettata dall’eccessiva produzione di collagene, la proteina che lega tra loro le cellule. Nell’uomo rappresenta il 6% del peso corporeo, evidente pertanto l’importanza di un sostanza che se prodotta in quantità inusitata può creare i problemi succitati. La maggior parte degli individui che soffrono di questa patologia solitamente non manifestano un peggioramento, anzi, con cure specifiche si può giungere ad un miglioramento delle condizioni. Anche qualora si avesse un peggioramento, raramente conduce alla morte del soggetto.
martedì 22 novembre 2011
lunedì 21 novembre 2011
giovedì 17 novembre 2011
Apophis: il pericolo viene dal cielo
Già nel 2004 gli esperti avevano dato l’allarme per un possibile scontro nel 2029 tra l’asteroide «99942 Apophis» e la Terra, ma l’avevano poi escluso in base a calcoli più accurati. Nuovi dati, ancora più precisi, hanno rilanciato l’avvertimento per il 13 aprile 2036: quel giorno Apophis potrebbe davvero entrare in rotta di collisione con il nostro pianeta. Stime dell’agosto 2006 hanno stabilito che le probabilità di impatto sono molto basse (meno di 1 su 40.000), ma comunque non nulle: per questo all’asteroide è stato attribuito un livello di pericolosità pari a 1 sulla Scala Torino. Un rischio lieve, dunque, ma con effetti potenzialmente catastrofici, che l’astrofisica Margherita Hack, lo scorso 7 maggio, ha ribadito dinanzi a centinaia di studenti stupefatti dell’Università di Milano-Bicocca: «Sembra che Apophis impatterà la Terra nel 2036 circa. In tal caso le conseguenze saranno peggiori di quelle di una bomba nucleare. Tra le soluzioni la più interessante prevede l’invio di un’astronave capace di attirare il meteorite e modificare così l’orbita su cui viaggia».
Apophis fa parte dei cosiddetti «asteroidi Aten», un sottogruppo degli asteroidi Nea (Near Earth asteroid) che ha semiasse inferiore a un’unità astronomica o UA. Apophis ruota attorno al Sole con un periodo di circa 323 giorni, e la sua orbita lo porta ad attraversare per due volte quella della Terra a ogni rivoluzione. In base alla luminosità osservata si stima che le sue dimensioni massime siano di 400 metri. Si prevede che il 13 aprile 2029 passerà a circa 37.000 km di distanza dalla superficie terrestre, una quota di poco superiore a quella dei satelliti geostazionari, che è di 35.786 km. Pare che un passaggio così ravvicinato di un simile asteroide accada soltanto ogni 1.300 anni. Da Terra comunque Apophis apparirà puntiforme e indistinguibile da una stella.
Un team di scienziati dell’Università del Michigan, coordinato da Daniel Scheeres e Peter Washabaugh, dovrebbe sfruttare il passaggio ravvicinato del 2013 per monitorare l’asteroide e calcolare con più precisione la traiettoria del corpo, affetta ancora da incertezze. L’idea è di posizionare sulla sua superficie un particolare trasponder (apparecchiatura simile a quelle in dotazione sui velivoli, che comunicano alla torre di controllo la posizione e i parametri di volo dell’aeroplano), il quale consentirebbe di avere dati certi sull’orbita in modo da ridurre drasticamente tutte le incertezze e fare chiarezza sul da farsi.
Ad oggi sono noti circa 1.000 asteroidi Nea con dimensioni fino a circa 32 km (es. 1036 Ganymed). Il numero totale potrebbe essere di qualche decina di migliaia, di cui più di 2.000 con diametro superiore a un chilometro. Quelli considerati potenzialmente pericolosi (Pha, Potentially hazardous asteroids) sono 861: la loro caduta sulla Terra potrebbe avere conseguenze devastanti. La Nasa ha calcolato, ad esempio, che l’energia che si sprigionerebbe da un ipotetico impatto di 99942 sarebbe 65.500 volte quella dell’ordigno sganciato su Hiroshima: il nome Apophis, ispirato al dio egizio della distruzione, è quanto mai adatto...
Per la verità, durante la sua esistenza, la Terra è stata colpita diverse volte da corpi celesti più o meno grandi. Tra i casi più recenti c’è l’asteroide che nel 1908 si schiantò a Tunguska, in Siberia: aveva un diametro di qualche decina di metri e la potenza distruttiva di mille bombe atomiche. Il più “famigerato” è comunque quello che contribuì all’estinzione dei dinosauri 65 milioni di anni fa: largo 10 km, equivalse allo scoppio simultaneo di miliardi di ordigni nucleari.
Tornando ad Apophis, l’Unione astrofili italiani (Uai) raccomanda la massima cautela. «Di norma», spiega Sergio Foglia, responsabile Uai della sezione asteroidi, «i mass media diffondono la notizia di un possibile impatto a ridosso della scoperta del nuovo oggetto, quando cioè il calcolo dell’orbita è impreciso a causa del ridotto numero di osservazioni. Man mano che le osservazioni aumentano, l’incertezza diminuisce e l’allarme rientra. I media tuttavia tendono a ignorare le correzioni successive, con la naturale conseguenza di diffondere il panico senza motivo». Il consiglio, insomma, è di fissare gli occhi al cielo, ma tenere sempre i piedi per terra.
Apophis fa parte dei cosiddetti «asteroidi Aten», un sottogruppo degli asteroidi Nea (Near Earth asteroid) che ha semiasse inferiore a un’unità astronomica o UA. Apophis ruota attorno al Sole con un periodo di circa 323 giorni, e la sua orbita lo porta ad attraversare per due volte quella della Terra a ogni rivoluzione. In base alla luminosità osservata si stima che le sue dimensioni massime siano di 400 metri. Si prevede che il 13 aprile 2029 passerà a circa 37.000 km di distanza dalla superficie terrestre, una quota di poco superiore a quella dei satelliti geostazionari, che è di 35.786 km. Pare che un passaggio così ravvicinato di un simile asteroide accada soltanto ogni 1.300 anni. Da Terra comunque Apophis apparirà puntiforme e indistinguibile da una stella.
Un team di scienziati dell’Università del Michigan, coordinato da Daniel Scheeres e Peter Washabaugh, dovrebbe sfruttare il passaggio ravvicinato del 2013 per monitorare l’asteroide e calcolare con più precisione la traiettoria del corpo, affetta ancora da incertezze. L’idea è di posizionare sulla sua superficie un particolare trasponder (apparecchiatura simile a quelle in dotazione sui velivoli, che comunicano alla torre di controllo la posizione e i parametri di volo dell’aeroplano), il quale consentirebbe di avere dati certi sull’orbita in modo da ridurre drasticamente tutte le incertezze e fare chiarezza sul da farsi.
Ad oggi sono noti circa 1.000 asteroidi Nea con dimensioni fino a circa 32 km (es. 1036 Ganymed). Il numero totale potrebbe essere di qualche decina di migliaia, di cui più di 2.000 con diametro superiore a un chilometro. Quelli considerati potenzialmente pericolosi (Pha, Potentially hazardous asteroids) sono 861: la loro caduta sulla Terra potrebbe avere conseguenze devastanti. La Nasa ha calcolato, ad esempio, che l’energia che si sprigionerebbe da un ipotetico impatto di 99942 sarebbe 65.500 volte quella dell’ordigno sganciato su Hiroshima: il nome Apophis, ispirato al dio egizio della distruzione, è quanto mai adatto...
Per la verità, durante la sua esistenza, la Terra è stata colpita diverse volte da corpi celesti più o meno grandi. Tra i casi più recenti c’è l’asteroide che nel 1908 si schiantò a Tunguska, in Siberia: aveva un diametro di qualche decina di metri e la potenza distruttiva di mille bombe atomiche. Il più “famigerato” è comunque quello che contribuì all’estinzione dei dinosauri 65 milioni di anni fa: largo 10 km, equivalse allo scoppio simultaneo di miliardi di ordigni nucleari.
Tornando ad Apophis, l’Unione astrofili italiani (Uai) raccomanda la massima cautela. «Di norma», spiega Sergio Foglia, responsabile Uai della sezione asteroidi, «i mass media diffondono la notizia di un possibile impatto a ridosso della scoperta del nuovo oggetto, quando cioè il calcolo dell’orbita è impreciso a causa del ridotto numero di osservazioni. Man mano che le osservazioni aumentano, l’incertezza diminuisce e l’allarme rientra. I media tuttavia tendono a ignorare le correzioni successive, con la naturale conseguenza di diffondere il panico senza motivo». Il consiglio, insomma, è di fissare gli occhi al cielo, ma tenere sempre i piedi per terra.
Elio-3: l'oro nero spaziale
Il 21 luglio 1969 l’uomo ha posato piede sulla Luna realizzando un sogno raccontato nei libri e al cinema. Sono passati quasi quarant’anni e questo satellite naturale della Terra da ultima frontiera del viaggio è diventato il “settimo continente” per la sua relativa vicinanza, in termini spaziali, al nostro pianeta. Sono infatti “solo” 385 mila i chilometri che separano la Luna dalla Terra, e per questo l’attenzione degli scienziati è sempre più spostata verso un possibile sfruttamento delle sue risorse.
A destare particolare interesse è l’elio-3 (3 He), un isotopo cosiddetto leggero dell’elio (He) perché presenta un solo neutrone all’interno del nucleo, a differenza del suo isotopo più comune, l’elio-4 (4 He), che invece possiede due protoni e due neutroni. 3 He è praticamente sconosciuto sulla superficie terrestre, in quanto l’elio presente in alcuni minerali radioattivi dà origine all’elio gassoso nella forma 4 He attraverso processi di decadimento e l'elio atmosferico sfugge nello spazio in tempi geologici relativamente brevi. Sulla Luna, invece, la mancanza di atmosfera ha permesso l’accumulo di questo elemento allo stato solido, facendo ipotizzare agli scienziati la possibilità di sfruttare i giacimenti che si sono creati per la produzione di combustibile per alimentare centrali nucleari che non producono scorie pericolose. Questo perché 3 He nel processo di reazione fonde nuclei atomici leggeri e non produce neutroni, che sono la causa della radioattività.
A livello energetico le potenzialità dell’elio-3 sono enormi: è stato calcolato che 150 tonnellate sarebbero sufficienti per soddisfare i fabbisogni elettrici mondiali per un anno intero, e per tale ragione3 He è stato subito ribattezzato il “petrolio spaziale”. Lo sforzo dei ricercatori americani ed europei è dunque orientato a trovare un modo per sfruttare questo oro nero. Nikolai Sebastianov, capo dell'ente Energhia che costruisce navicelle spaziali, ha annunciato che la Russia è pronta a installare una stazione lunare permanente entro il 2015 e a dare inizio all’estrazione di 3 He per il 2020. Il progetto russo prevede l’impiego di robot per il lavoro in esterno e di particolari “palloni” per stoccare l’elio in forma liquida. Il trasporto sarebbe garantito da una speciale navetta, la Klipper, presentata al salone aeronautico Maks 2005 e in grado di trasportare mezza tonnellata di materiale.
Dal MIT di Boston rispondono con ilLevitated Dipole eXperiment (LDX), un dispositivo in grado di riprodurre i campi magnetici che circondano la Terra e altri pianeti, che permetterebbe di studiare come l’interazione tra la magnetosfera e le particelle atomiche solari generi una reazione di fusione. Se si riuscisse a sfruttare questo processo in alternativa a quello conosciuto finora e se fosse possibile alimentarlo con3 He, la produzione di energia nucleare sarebbe sicura e pulita.
Le grandi potenzialità dell’elio-3 sono state discusse in un ciclo di convegni internazionali intitolati Moon Base che si sono tenuti dal 2005 al 2006 a Washington, a Venezia e a Mosca, e che hanno visto partecipare il direttore generale dell’ESA Jean Jacques Dordain, l’amministratore associato della Nasa William Readdy e il presidente della Washington Academy of Science F. Douglas Witherspoon. A dimostrazione dell’interesse che ruota intorno a3 He, il Planetario Hoepli di Milano ha a sua volta organizzato, lo scorso gennaio, una conferenza sul tema dal titolo La Luna sarà il Golfo Persico del XXI secolo? .
A destare particolare interesse è l’elio-3 (
A livello energetico le potenzialità dell’elio-3 sono enormi: è stato calcolato che 150 tonnellate sarebbero sufficienti per soddisfare i fabbisogni elettrici mondiali per un anno intero, e per tale ragione
Dal MIT di Boston rispondono con ilLevitated Dipole eXperiment (LDX), un dispositivo in grado di riprodurre i campi magnetici che circondano la Terra e altri pianeti, che permetterebbe di studiare come l’interazione tra la magnetosfera e le particelle atomiche solari generi una reazione di fusione. Se si riuscisse a sfruttare questo processo in alternativa a quello conosciuto finora e se fosse possibile alimentarlo con
Le grandi potenzialità dell’elio-3 sono state discusse in un ciclo di convegni internazionali intitolati Moon Base che si sono tenuti dal 2005 al 2006 a Washington, a Venezia e a Mosca, e che hanno visto partecipare il direttore generale dell’ESA Jean Jacques Dordain, l’amministratore associato della Nasa William Readdy e il presidente della Washington Academy of Science F. Douglas Witherspoon. A dimostrazione dell’interesse che ruota intorno a
ET: il telescopio gigante alla ricerca delle onde gravitazionali
È stato di recente presentato all’European Gravitational Observatory (EGO), a Cascina, in provincia di Pisa, ET, l’Einstein Telescope, il telescopio che darà la caccia alle onde gravitazionali, definito come uno dei progetti più ambiziosi dopo l’acceleratore LHC di Ginevra.
Il telescopio è dedicato ad Albert Einstein proprio perché il suo obiettivo sarà quello di rilevare le onde gravitazionali, tassello mancante alla verifica sperimentale della Teoria della Relatività Generale.
Le onde gravitazionali sono increspature dello spaziotempo che si propagano alla velocità della luce; sono generate dai “cataclismi cosmici”, masse stellari in movimento accelerato, come l’esplosione di supernovae o lo scontro tra buchi neri.
Sono oltre 200 gli scienziati, provenienti dall'Europa e dal resto del mondo, impegnati nello studio delle onde gravitazionali. Si tratta di fenomeni difficilmente osservabili; per questo motivo si stanno costruendo strumenti sempre più sofisticati come ET, una delle più grandi imprese scientifiche dei prossimi anni, che potrebbe portare alla scoperta di un Universo ancora sconosciuto.
Ma l'Einstein Telescope permetterà, allo stesso tempo, di studiare la formazione dell’Universo, ricostruendo i fenomeni avvenuti immediatamente dopo il Big Bang.
Come ha spiegato Michele Punturo, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) di Perugia e coordinatore scientifico dello studio di progetto, l’estrema sensibilità alle basse frequenze di ET permetterà l’osservazione delle onde gravitazionali inaugurando così l’era di un nuovo tipo di astronomia: l’astronomia gravitazionale.
Il progetto prevede la realizzazione di un osservatorio sotterraneo, un enorme triangolo di circa trenta chilometri di perimetro, a una profondità tra i 100 e i 200 metri, per isolarlo dai movimenti sismici, e un interferometro con bracci lunghi 10 km, in grado di "ascoltare" le onde gravitazionali.
ET rappresenta la terza generazione di osservatori per la ricerca delle onde gravitazionali, realizzati grazie allo sviluppo di esperimenti precedenti come VIRGO, un gigantesco e sensibilissimo interferometro laser, frutto di una collaborazione italo-francese tra INFN e CNRS e gestito dal consorzio EGO; costituito da un interferometro con due bracci perpendicolari lunghi 3 Km l’uno, che si stendono nella campagna pisana; e successivamente ADVANCED VIRGO, con una sensibilità dieci volte maggiore rispetto al predecessore, in grado di misurare variazioni di lunghezza subatomiche nel percorso dei fasci laser che corrono all’interno dei bracci.
Il passo ulteriore è rappresentato da ET, la sua sensibilità permetterà di ricostruire i fenomeni avvenuti un milionesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang.
Cancellato ogni dubbio: ecco le immagini delle impronte lasciate dagli astronauti sulla Luna.
Cancellato ogni dubbio: ecco le immagini delle impronte lasciate dagli astronauti sulla Luna.
L’ impronta di Armstrong, primo uomo sulla Luna, così come la sua frase "Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un balzo gigante per l'umanità", sono nella storia dell’umanità. Eppure nei decenni scorsi c'è chi ha teorizzato che si trattasse di una "messa in scena" operata dagli Stati Uniti per vincere la sfida della conquista dello Spazio, ingaggiata con i Russi ai tempi della guerra fredda.
Ora le immagini scattate nei giorni scorsi dalla sonda spaziale Lunar Reconnaissane Orbiter (LRO) provano senza ombra di dubbio l'atterraggio dei LEM - moduli lunari - e le passeggiate degli astronauti sul suolo del nostro satellite.
Le fotografie inviate da LRO mostrano la zona in cui l'uomo sbarcò con le missioni statunitensi dello storico programma Apollo.
Entrato nell'orbita del nostro satellite nel 2009, con l'obiettivo di effettuare una serie di esplorazioni mirate alla costruzione di mappe più dettagliate della superficie lunare, il velivolo aveva già fotografato la stessa area due anni fa. La differenza sta nella maggiore risoluzione delle documentazioni fotografiche più recenti, ottenuta grazie ad un escamotage che ha permesso di avvicinare di diversi chilometri LRO alla Luna. In particolare si è agito sull'orbita della sonda, rendendola più ellittica rispetto a prima.
La manovra ha abbassato il velivolo spaziale, portando la sua altitudine da 50 a 21 chilometri. La sonda ha orbitato a quest'altezza per 28 giorni, in modo da dare al satellite terrestre il tempo di ruotare completamente e permettendo così alla Wide Angle Camera LROC (Lunar Reconnaissance Orbiter Camera) la piena copertura della superficie lunare.
Le nuove immagini mostrano con chiarezza le impronte lasciate dagli astronauti nel corso di tre diversi allunaggi, comprovando l'autenticità degli sbarchi americani. Nella fattispecie, LRO ha rilevato le tracce relative alle missioni Apollo 12, 14 e 17.
La straordinaria limpidezza delle immagini permette di distinguere chiaramente, oltre ai sentieri percorsi a piedi dagli astronauti, anche le parti inferiori dei LEM (Lunar Excursion Modules) rimaste sulla Luna, i moduli di atterraggio e le tracce lasciate dai veicoli utilizzati in alcune missioni per spostarsi velocemente sulla superficie lunare.
La NASA, dunque, dispone finalmente di prove inconfutabili per porre fine alle polemiche riguardanti gli allunaggi americani, a meno che qualcuno non voglia sostenere che anche le prove sono false.
Per approfondimenti e per vedere le immagini: http://lro.gsfc.nasa.gov/
Antonio Meucci (13/04/1808 - 18/10/1889)
Antonio Meucci (13/04/1808 - 18/10/1889)
Nacque a Firenze nel 1808 in una famiglia di modeste origini e fu costretto a lavorare fin da giovanissimo, prima come daziere e poi come meccanico teatrale. Nel 1831 a soli 23 anni, a causa delle sue idee liberali e repubblicane, dovette emigrare in America con la moglie Ester stabilendosi prima a Cuba, dove lavorò come attrezzista in un teatro dell’Avana, e poi negli Stati Uniti a Staten Island, un’isoletta di fronte a New York, dove fondò una piccola fabbrica di candele in cui diede lavoro anche all’esule Garibaldi.
Appassionato studioso dell’elettricità fisiologica e animale e della fisica sperimentale applicata allo studio del suono, nel tempo libero si dedicava agli studi sulla trasmissione delle onde sonore. Realizzò il primo rudimentale apparecchio telefonico nel 1854 collegando due coni di cartone, chiusi alla base da una membrana elastica, con una corda e mettendo in comunicazione due persone.
Nel 1857 stabilì un collegamento interno nella propria abitazione tra il suo laboratorio nello scantinato e la stanza della moglie al secondo piano con un prototipo di telefono denominato “teletrofono”: l’apparecchio era costituito da un diaframma vibrante posto dinanzi ad un elettromagnete la cui vibrazione provocava variazioni di corrente.
Negli anni ‘60 fu costretto a chiudere la sua fabbrica per fallimento. Dotato di una volontà di ferro, continuò i suoi studi sulla trasmissione a distanza realizzando nel 1864 un nuovo apparecchio con una scatola di sapone da barba e un diaframma metallico, finché finalmente nel 1871 riuscì a depositare un brevetto temporaneo (chiamato caveat) per il suo “telegrafo parlante” al Patent Office di New York. Convinto delle grandi potenzialità della sua invenzione, cercò finanziamenti in patria tramite l’amico Bendelari ma senza successo. Grazie agli aiuti di amici riuscì a prorogare il brevetto per due anni, ma la scarsità di mezzi finanziari gli impedì di rinnovare le successive scadenze annuali e nel 1876 A.G. Bell presentò la sua domanda di brevetto ottenendo la regolare concessione.
Senza perdersi d’animo raccontò la sua storia ai giornali dando il via ad una vera e propria indagine e trascinò la Bell Telephone Company, la società telefonica fondata dal concorrente, in una causa che si sarebbe protratta per molti anni. Solo nel 1888 una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti riconobbe a Meucci la priorità dell’invenzione, ma al riconoscimento di paternità tecnologica non corrispose nessun risarcimento economico, tanto che Meucci morì nel 1889 a New York in totale povertà.
Nel 2002 il Congresso degli Stati Uniti lo ha riconosciuto ufficialmente come “inventore del telefono”.
Tra le altre invenzioni minori di Meucci si ricordano filtri per la depurazione delle acque (1835), sistemi per la doratura galvanica delle spade (1844), un apparecchio per l’elettroterapia (1846), un metodo per decolorare il corallo rosso (1860), uno speciale bruciatore per lampade a cherosene (1862).
Appassionato studioso dell’elettricità fisiologica e animale e della fisica sperimentale applicata allo studio del suono, nel tempo libero si dedicava agli studi sulla trasmissione delle onde sonore. Realizzò il primo rudimentale apparecchio telefonico nel 1854 collegando due coni di cartone, chiusi alla base da una membrana elastica, con una corda e mettendo in comunicazione due persone.
Nel 1857 stabilì un collegamento interno nella propria abitazione tra il suo laboratorio nello scantinato e la stanza della moglie al secondo piano con un prototipo di telefono denominato “teletrofono”: l’apparecchio era costituito da un diaframma vibrante posto dinanzi ad un elettromagnete la cui vibrazione provocava variazioni di corrente.
Negli anni ‘60 fu costretto a chiudere la sua fabbrica per fallimento. Dotato di una volontà di ferro, continuò i suoi studi sulla trasmissione a distanza realizzando nel 1864 un nuovo apparecchio con una scatola di sapone da barba e un diaframma metallico, finché finalmente nel 1871 riuscì a depositare un brevetto temporaneo (chiamato caveat) per il suo “telegrafo parlante” al Patent Office di New York. Convinto delle grandi potenzialità della sua invenzione, cercò finanziamenti in patria tramite l’amico Bendelari ma senza successo. Grazie agli aiuti di amici riuscì a prorogare il brevetto per due anni, ma la scarsità di mezzi finanziari gli impedì di rinnovare le successive scadenze annuali e nel 1876 A.G. Bell presentò la sua domanda di brevetto ottenendo la regolare concessione.
Senza perdersi d’animo raccontò la sua storia ai giornali dando il via ad una vera e propria indagine e trascinò la Bell Telephone Company, la società telefonica fondata dal concorrente, in una causa che si sarebbe protratta per molti anni. Solo nel 1888 una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti riconobbe a Meucci la priorità dell’invenzione, ma al riconoscimento di paternità tecnologica non corrispose nessun risarcimento economico, tanto che Meucci morì nel 1889 a New York in totale povertà.
Nel 2002 il Congresso degli Stati Uniti lo ha riconosciuto ufficialmente come “inventore del telefono”.
Tra le altre invenzioni minori di Meucci si ricordano filtri per la depurazione delle acque (1835), sistemi per la doratura galvanica delle spade (1844), un apparecchio per l’elettroterapia (1846), un metodo per decolorare il corallo rosso (1860), uno speciale bruciatore per lampade a cherosene (1862).
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