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mercoledì 18 aprile 2012

Robinho si racconta a Sportweek: "Ibra si incazza sempre"



Una curiosità, Robinho: lei ha mai rischiato di fare a botte con Ibra? Grassa risata – una delle tante che produrrà durante questa intervista – occhioni ridotti a fessure e poi, col tono di chi si sta chiedendo se la persona che gli sta davanti sia matta: «Scusi, mi ha visto bene? Soprattutto: ha visto quanto è grosso lui?». Già, sarebbe come Davide contro Golia, e stavolta senza fionda. Al ricordo di quanto ci mise lo svedese ad atterrare un bestione come Onyewu dopo un tackle in allenamento, e in quanti dovettero mettersi tra loro per dividerli, effettivamente sarebbe un confronto senza speranza – per l’altro. Che, incuriosito, domanda: «Mi spiega perché dovrei fare a botte con lui?».
Perché Ibra è Ibra: se perde si incazza, se la squadra non ne asseconda i movimenti in campo si incazza, se gli passi male il pallone si incazza.
«Appunto: si incazza solo per cose di calcio. Infatti io e lui litighiamo ogni santo giorno. Ma tutto nasce e muore in campo. Fuori è un ragazzo normale, perfino più tranquillo di altri che in partita si sbracciano e parlano meno. A Natale cantavamo insieme sotto l’albero di Milanello. E comunque preferisco uno arrabbiato come Ibrahimovic, a uno molle, che perde palla e non si scompone, che vede la squadra subire e rimane fermo con le mani sui fianchi».

Se è vero che gli opposti si attraggono, Ibra e Binho sono fatti l’uno per l’altro. E in campo si vede. Forse Cassano rimane il partner preferito – per caratteristiche tecniche e affinità caratteriale – del totem rossonero, ma Robinho è lì: i suoi movimenti, la capacità di servire e ricevere a sua volta gli assist del compagno d’attacco, ne fanno da due stagioni la metà ideale di una coppia ben assortita anche dal punto di vista fisico. Il prodotto collettivo di questa intesa è un Milan candidato a bissare lo scudetto vinto l’anno scorso e dopo cinque anni di nuovo nei quarti di Champions; il risultato individuale è la ritrovata vena calcistica (dimenticati i giorni bui in Inghilterra) di Robson de Souza, per tutti Robinho, brasiliano da promozione turistica, giocoliere nei piedi e carnascialesco nello spirito, un concentrato adrenalinico di samba, calcio, allegria.
Cominciamo proprio da qui: lei sembra uno che si diverte sempre, in campo e fuori. Ma i brasiliani sono tutti così?
«Io non ho mai visto un brasiliano triste. Anche nelle difficoltà, anche se non c’è da mangiare, siamo contenti, balliamo e suoniamo. L’unica volta in cui io ho perso il sorriso è stato durante i 41 giorni in cui mia madre è rimasta nelle mani di chi l’aveva rapita».

Eppure la sua è stata la classica infanzia del bambino delle favelas.
«Sono nato a São Vicente, nello Stato di San Paolo. La casa in cui abitavo era più piccola della stanza dove ci troviamo adesso: per fortuna ero figlio unico. Mio padre era un operaio addetto alla rete fognaria, mia mamma faceva la donna delle pulizie. Sulla tavola, riso e uova. Ogni giorno, a pranzo e a cena. Sempre che si riuscisse a mettere insieme l’uno e le altre. Ho cominciato a nutrirmi meglio solo quando sono entrato nel Santos, a 12 anni».

E prima del Santos?
«Vivevo per strada, giocando a pallone dovunque. Ho desiderato tanto una bicicletta e non l’ho mai avuta: “Scegli”, mi diceva papà. “O i soldi per mangiare, o la bici”. E quanto avrei voluto un giochino elettronico! Ma sono stato un bimbo felice. Avevo i miei amici, mi sentivo libero. Anche perché nelle strade del mio Paese c’era meno violenza rispetto a oggi: tanti ragazzi con cui sono cresciuto hanno oggi problemi di droga, altri stanno in galera».

Ha mai pensato che, con un’alimentazione migliore nei primi anni di vita, sarebbe stato più alto e avrebbe avuto un’altra muscolatura?
«Certo che ci ho pensato. Quando arrivai al Santos pesavo 20 chili. Iniziando a mangiare regolare, agli orari giusti, mi aumentò pure l’appetito. Ma al debutto da professionista, a 17 anni, pesavo 57 chili appena: avevo paura che alla prima entrata mi spaccassero. Poi ho capito che la mia statura ridotta e le mie gambette sottili avrebbero fatto la mia fortuna: non è facile starmi dietro e fermarmi, quando scatto o vado via in dribbling».

Santos, Real Madrid, Manchester City, Milan: ha giocato sempre in grandissime squadre. Cosa hanno rappresentato, per lei?
«Il Santos è l’amore. Il club che mi ha fatto diventare professionista. Il Real ha realizzato il mio sogno di giocare in Europa. Mi dispiace solo di essere andato via litigando: non ha fatto bene all’immagine mia e loro. Il City è stato una specie di apprendistato: ho capito che dovevo giocare più per la squadra e meno per me stesso. Ma l’Inghilterra non è il posto giusto per noi brasiliani. Il Milan è la passione. Qui sono tornato a essere felice, e se dipendesse da me rimarrei per i prossimi dieci anni».

La città le piace?
«Milano ha tutto. Ci fosse il mare, sarebbe la città della mia vita. Abito in zona San Siro, la mattina porto a scuola Robson Junior (4 anni, il maggiore dei suoi due figli; l’altro, Gianluca, ha 10 mesi, ndr), poi, se non c’è allenamento, vado a prendere mia moglie in palestra. Ma non posso dire di conoscere bene Milano: a Vivian, per esempio, piace girare per negozi, ma io mi annoio. Preferisco andare alla scoperta dei ristoranti».

Mangia italiano?
«Se vado fuori, solo giapponese. La pasta la mangio qui a Milanello, mia moglie fa cucina brasiliana… E poi è a dieta, e costringe pure me a farla».

Con chi esce?
«Thiago Silva, Yepes, Cassano… A volte vengono a casa mia».

Come passate la serata?
«Si mangia, si parla, si scherza, con la musica in sottofondo.Thiago dice che ho sempre le cuffie sulle orecchie, e ha ragione. Comincio appena sveglio, e poi in auto, mentre il pullman ci porta allo stadio, a casa da solo… Samba, ma anche altro. E canto sotto la doccia. La musica è la cosa che mi piace di più dopo il calcio: se non avessi giocato, sarei diventato certamente un cantante di samba».

Quindi saprà cantare benissimo…
«Macché, sono stonato. Boateng sì che ha una voce straordinaria. Io però sono bravo a suonare i bonghi. Ma lo faccio solo a casa, non come Ronaldinho, che si esibiva pure nei locali».

E Pato? Parlate mai, del suo legame con Barbara Berlusconi?
«Lo prendo sempre in giro: “Comportati bene, se no il padre ti caccia”».

Ma nello spogliatoio non c’è imbarazzo per un compagno fidanzato con la figlia del presidente?
«Nessuno. Con noi, Pato continua a essere lo stesso di sempre, e noi nei suoi confronti. Lui sa quali sono i suoi doveri e fa bene il suo lavoro. Il resto fa parte della sua vita privata».

Dai tempi del Santos a oggi, è cambiato e quanto, come uomo?
«Al Santos ero un ragazzino, pensavo soltanto a scherzare. Ora sono diventato più tranquillo, ho una famiglia, dei bambini».



Ha portato all’altare Vivian Guglielmetti tre anni fa, ma voi due state insieme da una vita.
«Suo papà allenava la squadra di futsal dove giocavo da bambino. Ho conosciuto lei a 9 anni. All’inizio eravamo amici, poi, quando avevo deciso di fare le cose sul serio, ero ancora nel periodo in cui facevo troppo casino. Lei diceva: “Se fai così non possiamo metterci insieme”. A 15 anni sono diventato un po’ più tranquillo e ci siamo fidanzati».

Si dice sempre che per i calciatori sia importante sposarsi presto: è stato così anche per lei?
«Per un brasiliano è fondamentale. Con tutto il rispetto per le donne italiane, le brasiliane sono tanta roba. Da perderci la testa. Infatti, quando torno in Brasile, Vivian mi dice sempre: “Mi raccomando, stai tranquillo, che qui diventi un’altra persona. A Milano sei tutto casa e allenamento, qua invece ti chiamano gli amici e vai…”».

Ma perché, Vivian e i bambini non vengono a São Vicente con lei?
«Sì, ma io esco per conto mio. Però mia moglie è stata importantissima per la mia carriera».
Quindi non ha mai avuto la tentazione di cambiare, in tanti anni.
«Ah, quello sì, tante volte» (ride).

Al Milan c’è un compagno che l’ha sorpresa per quanto è forte?
«Abate. Ma, visto da vicino, Ibra è ancora più forte di quello che credevo».

E dàgli… E perché litigate?
«Perché lui vuole sempre la palla, e non è possibile. Così a ogni partita discutiamo» (ride).

Un episodio particolare?
«Qualche domenica fa: Ibra era in fuorigioco, ma mi faceva cenno lo stesso di servirlo. Io cercavo di dirgli con gli occhi di tornare indietro, e lui niente. Alla fine non gliel’ho passata, e lui ha cominciato a protestare. Siamo andati avanti finché non è finito il primo tempo».

È più difficile capire Gattuso o Cassano, quando parlano il loro dialetto stretto?
«Cassano! Non capisco una parola».

Chi la fa ridere di più?
«Zambrotta e Yepes. Sono due vecchietti, ma insieme fanno un casino incredibile nello spogliatoio».

Dica la verità: quante volte Berlusconi l’ha rimproverata per i gol che ha sbagliato?
«Mai. Ricordo anzi una volta in cui mi disse, dopo un errore sotto porta: tranquillo, che alla prossima farai gol. E così successe».

Ma come fa uno come lei a fallire gol che sembrano fatti?
«Vorrei capirlo anch’io. Quando a Marassi ho tirato alto contro il Genoa a mezzo metro dalla porta, non ho dormito tutta la notte. È che quando le cose sono facili ci vado troppo leggero, non abbastanza cattivo e convinto».

Qual è lo sfizio che ancora non si è tolto?
«Avevo solo un sogno: comprare una casa per sistemare mia madre, toglierla da dov’era. Adesso ci sono riuscito e non voglio altro».

Di cosa è più vanitoso?
«Delle coppe vinte. Non le può toccare nessuno, nemmeno mio figlio. Fai quello che vuoi col televisore, gli dico, ma guai a te se sfiori un mio trofeo!».

Ma non è lei, che si porta dietro il parrucchiere personale dovunque vada?
«Ne ho uno di fiducia, ma è di Milano. Però è vero, i capelli sono la cosa che più mi piace di me. Insieme al sorriso».

SportWeek

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